Anzitutto c’erano i lefebvriani, veri e propri residui archeologici, espressione del cattolicesimo più retrivo ed intransigente, movimento che non riconosce validità alcuna all'evento che più d'ogni altro ha modificato la chiesa romana nel secolo passato, quel Concilio Vaticano II che, per primo, introduceva in una chiesa arroccata e pre-moderna temi quali il dialogo ecumenico, l'apertura al laicato, la libertà di coscienza. Tutte questioni aberranti, pericolose aperture allo spettro nefasto della modernità, vera e propria piaga della fede sicura di sé perché ottusa e refrattaria ad ogni discorso che esorbiti dall'auto-referenzialità di una chiesa ripiegata su se stessa e rigidamente disciplinata. Suscita più di qualche perplessità il fatto che l'attuale pontefice, che non ha perso occasione per condannare duramente ogni espressione di libertà teologica generatasi dallo spirito del Vaticano II, abbia invece messo in atto tutti gli accorgimenti possibili per trovare un accordo con questo movimento, in modo tale da includerlo nuovamente a pieno titolo in seno al cattolicesimo romano.[1]
Forse anche a questo scopo, o ad ogni modo (il che sarebbe, forse, ancor più preoccupante) a motivo di una piena convergenza di vedute, anche la Segreteria di Stato vaticana, per bocca di monsignor Peter Brian Wells, si era affrettata a sottolineare che l'opera teatrale in oggetto risultava «offensiva nei confronti del Signore Nostro Gesù Cristo e dei cristiani». Peccato che costoro, con ogni probabilità, come ricordava la giornalista Concita de Gregorio sulle colonne del quotidiano La Repubblica di sabato 21 gennaio 2012, lo spettacolo non l'avessero nemmeno visto: secondo la migliore tradizione oscurantista, infatti, la censura che costoro hanno esercitata era rigorosamente preventiva, basata su indiscrezioni, delazioni, sentito dire.
E chissà se lo spettacolo lo avevano invece visto i solerti militanti di Militia Christi, organizzazione templare (sembra fantascienza, eppure esistono davvero) di taglio decisamente integralista, che non perse tempo ad associarsi a quanti si erano affrettati a diffamare l'opera del regista teatrale Romeo Castellucci. Questo originale condensato di fanatismo, questa sorta di rediviva «santa alleanza», abbozzò una reazione nell'unica forma in cui i cliché previsti ed adottati consentono di esternare il dissenso: si diede appuntamento a poca distanza dal teatro Parenti e celebrò, udite udite, una messa di riparazione (sic!) mediante cui rispondere (si fa per dire) alla rappresentazione di un'opera considerata blasfema. Visti i presupposti, non stupirà, probabilmente, sapere che il movimento neo-fascista Forza Nuova si associò alle proteste di questo cattolicesimo bigotto e oscurantista, organizzando un sit-in di fronte al teatro al fine di impedire l'ingresso al pubblico.
Due cose, su tutte, mi avviliscono di questo evento increscioso e triviale dal quale ci separa appena un anno e non, come a prima vista potrebbe sembrare, un millennio. La prima riguarda il metodo: il fondamentalismo cattolico, alla stessa stregua di tutti gli integralismi, religiosi e non, rifiuta il dialogo ed il confronto e conosce esclusivamente la condanna, peraltro preventiva.
Nessuno argomenta, nessuno discute nel merito: l'ordine, tassativo, incontrovertibile, è di indignarsi, senza domandarsi, e di diffamare, senza conoscere. Purtroppo, a quanto pare, il messaggio, almeno in parte, attecchisce: una fetta neanche troppo inconsistente del mondo cattolico, infatti, in concomitanza con la rappresentazione dell’opera teatrale si sollevò, organizzò veglie, simulò contrizione e sconcerto, sapientemente indotti. Ricordo che arrivarono alle mie orecchie messaggi di questa levatura: «Hai sentito dello spettacolo che offende Cristo?». Hai sentito? Ma che vuol dire? A uno spettacolo, tutt’al più, si assiste: e poi, se è il caso, lo si critica, motivando la legittima presa di distanza. Ma la censura preconcetta, fatta di pregiudizio ed ignoranza, sostanzialmente comandata ad un plotone di fedeli per definizione obbedienti e per tradizione non pensanti, è un insulto alla libertà d'espressione e di giudizio del credente. Dovrebbe trattarsi, a rigor di logica, di qualcosa di inaccettabile, di un'imposizione, questa sì, tale da provocare indignazione.
Invece, e qui viene la seconda considerazione, buona parte del cattolicesimo «sano», che con la cultura promuove il dialogo anziché fomentare la paura ed incentivare l'intransigenza, all’epoca dei fatti decise di non si esprimersi: non, almeno, con la dovuta chiarezza e con i toni adeguati. Latitò, scegliendo un profilo basso che, in questo caso, anziché stemperare la polemica, finì per non contrastare le esternazioni degli integralisti, i deliri dei bigotti che, nel frattempo (cosa ben più preoccupante) continuano a reclutare adepti. Talvolta farebbe piacere vedere che ci si indigna per le cose opportune: invece si assiste, attoniti, increduli, ad un silenzio assordante, complice, avvilente. La presa di distanza esplicita e motivata, ancora oggi, non fa parte del confronto interno al cattolicesimo, nell’ambito del quale, a quanto pare, prevale un bon ton del tutto formale, contrabbandato impropriamente per rispetto della sensibilità altrui e per pluralismo delle opinioni in seno alla stessa chiesa. Peccato che gli altri, del rispetto così come del pluralismo, non abbiano alcuna nozione: per cui offendono, sproloquiano e, ciononostante, imperversano incontrastati.
Vorrei concludere queste righe con una riflessione relativa alla cultura in generale e all'arte in particolare: con la prima la fede è chiamata a dialogare, per trarne spunti, nutrimento, sollecitazioni; la cultura, infatti, costringe a riflettere, obbliga a confrontarsi, abitua ad interrogarsi; tutti atteggiamenti che dovrebbero caratterizzare una fede inquieta perché autentica, salda perché aperta, adulta perché libera. Ovviamente i fondamentalismi di ogni specie inorridiscono di fronte a tutto questo, per la semplice ragione che hanno in spregio quella libertà che si prodigano ad imbrigliare e si affannano a reprimere. Luogo principe della libertà d'espressione è proprio l'arte, la quale non deve chiedere alcuna licenza de li superiori per manifestare, anche con toni irriverenti, il proprio pensiero: una società che contempli la censura del lavoro e del linguaggio artistico è una società intollerante, moralista; nel nostro caso specifico, clericale. L'arte si legittima da sé, non deve passare alcun vaglio, non deve rendere ragione ad alcuna (presunta) autorità morale, perché, per parafrasare Nietzsche, essa si trova per essenza «al di là del bene e del male», categorie troppo ristrette e semplicistiche per racchiudere ed esaurire lo spirito umano e le sue creazioni. Ciò ad alcuni dispiace e dispiacerà sempre, perché la creatività ha avuto ed avrà immancabilmente i suoi censori: e quest'attitudine inquisitoria rappresenterà sempre la tentazione più profonda di una chiesa che si concepisce, anzitutto, come mater et magistra, paladina di un moralismo improntato a quella obbedienza ottusa e remissiva spacciata per umiltà che è l'atteggiamento caldeggiato e praticato dai benpensanti di ogni tempo e luogo.
Alessandro Esposito– pastore valdese
articolo tratto da 'Micromega' del 24 gennaio 2013
[1]Come ha mostrato sapientemente uno dei massimi esperti di storia del cristianesimo moderno, Massimo Firpo, in una recensione apparsa sul quotidiano Il Sole 24 Ore in data 22 gennaio 2012 e intitolata, significativamente: Lefebvre perdonato.